I primi elaboratori elettronici italiani: gli albori dell’informatica italiana.

Premessa
È importante ricordare come l’Italia ha iniziato il suo percorso nell’uso e nella realizzazione dei primi elaboratori elettronici. In merito non mancano libri e documenti, ma ritengo questa storia poco conosciuta e, anche per motivi di orgoglio nazionale, è utile rinfrescare l’argomento.
Non sono uno storico, ma un curioso che ha cercato di documentarsi e capire come l’informatica italiana ha mosso primi passi e perché diverse iniziative non hanno avuto il dovuto sostegno.

Informatica è un termine coniato verso la metà degli anni ‘60 del secolo scorso, ma con radici lontane legate alla necessità di eseguire calcoli in modo semplice, veloce e possibilmente automatico. Una storia vecchia di secoli se non millenni che si può affiancare alla capacità di contare.
I primi passi significativi nella automazione del calcolo si hanno con l’evoluzione della meccanica. Ben noti sono i progetti che Babbage non riuscì a completare per problemi meccanici e finanziari (siamo verso il primo quarto del diciannovesimo secolo). Questi progetti includevano il concetto di programmazione che derivano dalla invenzione del Telaio Jacquard.
La macchina differenziale di Babbage [1] fu costruita da altri verso la metà del 1800. I progetti della macchina analitica di Babbage furono presentati in un convegno pubblico nel 1840 presso l’Accademia delle Scienze di Torino. Al convegno partecipò Luigi Menabrea [2], matematico, generale e politico italiano, che pubblicò i resoconti della pubblicazione con il titolo “Notazioni sulla macchina analitica del Sig. Carlo Babbage” [3], il testo, scritto in francese, fu ripreso, tradotto in inglese e ampliato da Ada Lovelace, colei che è considerata la prima programmatrice di computer.
Le prestazioni migliorano con i primi elaboratori elettromeccanici. Il capostipite è lo Z1, del tedesco Konrand Zuse, iniziato a costruire nel 1936 e mai terminato completamente. Interessante è notare come lo Z1 (ne esistono repliche) abbia una struttura del tutto simile agli attuali computer con operazioni binarie [4]. L’evoluzione dello Z1 fu lo Z2 e lo Z3 quest’ultimo, a relè, più di 2000, distrutto nel 1943 a seguito di bombardamenti.
Un successivo modello elettromeccanico fu il Mark I, noto anche come Automatic Sequence Controlled Calculator (ASCC) costruito da IBM anche questo, come la serie Z, ha schede o nastri perforati come elementi di ingresso: l’uso di schede perforate era già consolidato nelle macchine tabulatrici di IBM e di altre società.
Il passo successivo vede l’uso delle valvole termoioniche, che incrementano notevolmente la velocità di elaborazione. L’ENIAC (1945), Electronic Numerical Integrator and Computer [5], aveva 18000 valvole, ma il primo elaboratore elettronico fu l'Atanasoff-Berry Computer (spesso chiamato ABC) seguito dal segretissimo COLOSSUS (1943), almeno 1500 valvole, inglese e ufficialmente svelato nella metà degli anni ‘70, usato durante la guerra per decodificare i messaggi tedeschi [6]. Il problema delle valvole era l’affidabilità: si rompevano. Il record di funzionamento continuo dell’ENIAC è di quasi 5 giorni.
I progetti dei vari elaboratori, specie in America, erano di origine universitaria, ma quasi sempre sponsorizzati dai militari, che di fatto resero possibile il forte impegno economico per lo sviluppo del settore. I calcoli di tavole balistiche erano le necessità più frequenti, ma il primo forte impegno militare del computer è nella progettazione della prima bomba atomica. Il transistore, il primo prototipo è del 1947, fa la comparsa nei primi anni ’50 e velocemente sostituisce le valvole.
In Italia le prime notizie di elaboratori elettronici digitali giunsero verso la fine degli anni ’40 e inizio ’50, poco dopo la fine della II guerra mondiale. L’interesse militare nell’uso degli elaboratori limitò fortemente lo scambio di informazioni specie durante il periodo bellico (e anche dopo, direi). I centri di ricerca e le università sono i primi interessati all’argomento. Nell’industria c’è l’interesse di Olivetti, che già produceva macchine da calcolo meccaniche.
L’acquisizione di un computer consisteva nell’acquisto o nella sua costruzione, entrambe operazioni difficili specie per motivi economici, l’Italia alla fine della guerra non aveva risorse e quelle poche avevano altre destinazioni. La tecnologia era nuova, ma in Italia c’era una buona conoscenza della matematica, della logica e dell’elettronica impulsiva affine alla elettronica digitale.
L’interesse per i calcolatori elettronici era spinto dalla necessità di eseguire calcoli in applicazioni tecnico scientifiche e solo in seguito estese in ambiti amministrativi gestionali. I primi poli di studio erano a Milano, Roma, Pisa.

CRC 120AA Milano l’interesse per l’automazione del calcolo numerico vede protagonista Gino Cassinis rettore del Politecnico. Già nel 1951 fece richiesta per l’acquisto di un calcolatore elettronico che venne accettata nel 1953 anche grazie ai finanziamenti dell’European Recovery Program, il piano Marshall. La scelta ricade sul CRC 102A della americana Computer Research Corporation, poi acquisita da NCR [7].
L’CRC 102A usava circa 600 valvole e oltre 6000 diodi. Le valvole erano relativamente poche perché, per quanto possibile la logica era realizzata con diodi. Ad occuparsi dell’elaboratore fu principalmente Luigi Dadda, in futuro rettore del Politecnico. Al tempo dell’acquisto era studente che stava facendo un corso di specializzazione negli Stati Uniti e li rimase per affiancare il costruttore nella realizzazione della macchina, questo perché la ditta non forniva supporto tecnico in Italia e spettava all’acquirente adoperarsi per farla funzionare e ripararla. L’elaboratore fu portato intero in Italia su una nave che traportava balle di cotone usate anche per proteggere il computer da urti e vibrazioni. La sorpresa, ricorda Dadda [8], fu alla dogana di Genova dove un funzionario pretendeva di apporre, su ogni valvola e diodo, il bollo (e anche la relativa tassa) che al tempo doveva essere apposta su ogni tubo termoionico. Sembra che, alla fine, il funzionario si accontentò della promessa che i bolli sarebbero stati apposti quanto prima da Dadda, bolli che di fatto rimasero in un cassetto. Una curiosità, la macchina era costruita per funzionare a 110 Volt 60 Hz, standard americano, per alimentarla c’era un convertitore rotante (motore/generatore).

FINACA Roma c’è l’Istituto Nazionale per le Applicazioni del Calcolo (INAC) che fa parte del CNR dal 1932 (in precedenza IAC fondato, a Napoli nel 1927, da Mauro Picone) ben noto in campo internazionale per la ricerca su modelli matematici e soluzioni numeriche. Inizialmente fu presa in considerazione la costruzione di un elaboratore, ma alla fine si optò per l’acquisto che si concretizzò con la macchina costruita dalla inglese Ferranti, il Mark 1 [9] che fu montata presso l’istituto e inaugurata nel dicembre 1955, alla presenza dell’allora capo dello Stato, poco dopo l’ufficializzazione del CRC 102A, e denominata FINAC (Ferranti – INAC). Anche per questo caso, per l’acquisto fu determinante il contributo del progetto Marshall1.
È importante notare come inizialmente, nella ipotesi di costruzione, già nel 1949, era coinvolta l’Olivetti [10] con la partecipazione di Michele Canepa dipendente di Olivetti.

CEPL’università di Pisa, nel 1954, intraprese il progetto di costruzione di un calcolatore elettronico. La facoltà di Fisica disponeva al tempo di fondi, raccolti per costruire una macchina per l’accelerazione di particelle. Questo progetto, per interesse nazionale passò al CNR e la sua realizzazione spostata a Roma. Restava la disponibilità finanziaria. Marcello Conversi, al tempo direttore dell’istituto di fisica raccolse il suggerimento di Fermi. Enrico Fermi nel 1954 partecipò ad un incontro organizzato a Varenna, sul lago di Como. Era già ammalato di cancro e morì pochi mesi dopo. Con l’occasione ebbe contatti con l’università di Pisa, dove aveva compiuto gli studi, e gli fu chiesto un parere su come utilizzare i fondi. Fermi propose la costruzione di un computer evidenziando l’opportunità di formare tecnici e competenze [11].
Il suggerimento fu ascoltato dando vita al Centro Studi Calcolatrici Elettroniche (CSCE) per la progettazione e realizzazione della CEP, Calcolatrice Elettronica Pisana. Fu inizialmente realizzato un prototipo per indagare le caratteristiche logiche della macchina e le sue componenti circuitali, che fu nominato macchina ridotta [12]. La CEP fu messa in funzione nel 1961. Usava più di 3000 valvole, 2000 transistori e 12000 diodi [13]. Al Centro Sudi partecipò attivamente l’Olivetti.

La Olivetti era da tempo interessata alle calcolatrici elettroniche. Nel 1949 Fermi visita la fabbrica di Ivrea [14] e richiama l’attenzione sulle nuove tecnologie elettroniche (Fermi conosceva l’importanza del calcolo elettronico che aveva usato nel progetto Manhattan). Sfumata la possibile costruzione di un computer in collaborazione con INAC, la Olivetti aprì, nel 1952, un centro di ricerca negli Stati Uniti [14], a New Canaan, per studiare ed acquisire tecnologia. Il centro italiano era diretto da Dino Olivetti, presidente della Olivetti Corporation of America, e Michele Canepa che già aveva collaborato con INAC. Da questo laboratorio uscì la memoria a tamburo della CEP ed altro ancora.
Olivetti si unì al progetto CEP nel 1955 aprendo un laboratorio a Barbaricina, Pisa. Il laboratorio, successivamente trasferito a Borgolombardo nei pressi di Milano, era diretto da Mario Tchou (1924) [15], italiano, figlio di un diplomatico cinese presso il Vaticano. Diplomato e laureato in Italia, perfeziona gli studi negli USA e qui, nel 1954 fu arruolato da Adriano Olivetti che lo convinse a rientrare in Italia.
ELEA 9003Con la direzione di Tchou viene progettato l’ELEA 9003 (ELaboratore Elettronico Aritmetico), preceduto da 2  prototipi i modelli 9001 e 9002 entrambi a valvole. Tchou si rende conto dei limiti delle valvole termoioniche e decide di realizzare il 9003 interamente a transistori, ma l’accaparramento di adeguati componenti è difficoltoso. Per avere una fonte sicura per i transistori l’Olivetti decide di produrre i componenti a semiconduttore fondando con Telettra e la collaborazione di Fairchild, la SGS, Società Generale Semiconduttori. Oggi, dopo varie partnership, la STMicroelectronics è una delle più importanti aziende di semiconduttori a livello mondiale. Federico Faggin, il principale progettista dell’Intel 4004, il primo microprocessore, fu dipendente di Olivetti, prima, e di SGS poi, dove iniziò ad usare le tecniche MOS (Metal Oxide Semiconductor) impiegate poi nel Intel 4004.
L’ELEA venne inizialmente usato e testato in Olivetti. Il 9003, uno dei primi computer completamente transistorizzato ad uso commerciale, fu completato nel 1958 e presentato ufficialmente al capo dello stato, Giovanni Gronchi, nel 1959, messo in commercio ne furono prodotti circa 40 esemplari, il primo andò alla Marzotto [16].
La morte di Adriano Olivetti nel febbraio del 1960 fu un duro colpo per il settore elettronico, ma l’attività continuò tanto che era in progetto l’Elea 9004 che, fra l’altro, avrebbe dovuto sostituire FINAC. A questo evento si aggiunse la morte di Mario Tchou in un incidente stradale, nel 1961. La morte di Olivetti e di Tchou segnano, se non la fine, almeno un brusco e lungo arresto della avventura informatica olivettiana.
Nel 1959 la Olivetti acquista la americana Underwood con l’intento di meglio penetrare il mercato amaricano: un grosso impegno finanziario. Venuto a mancare Adriano mancò anche la sua visione strategica. La famiglia Olivetti si distaccò dall’azienda che non fu capace di trovare i finanziamenti richiesti. L’Olivetti si trovava in crisi finanziaria e per reperire fondi si formò un gruppo di intervento che comprendeva Fiat e Mediobanca. L’analisi che seguì concluse che il settore elettronico andava chiuso, Vittorio Valletta [17], allora presidente della Fiat sostenne che il neo della elettronica andava estirpato [18]. La divisione elettronica venne, di fatto, venduta (per alcuni svenduta) alla General Electric nel 1964. Olivetti mantenne una quota minoritaria. Non ci fu nessun intervento di Stato, anche i dirigenti Olivetti non avevano la corretta visione dell’elettronica, “annebbiati” dal successo del settore meccanico, tanto meno i sindacati.
In seguito, è nato il sospetto, non dimostrato ma plausibile, che la vendita del settore elettronico di Olivetti fosse una sorta di favore agli americani per eliminare la concorrenza alla IBM [18], azioni simili ci furono per altre aziende italiane (vedi il caso Mattei). Di certo è che ci furono pressioni da parte dell’ex ambasciatore americano, Clare Boothe Luce [19]. Sembra anche che Adriano Olivetti fosse controllato dalla CIA [20].
P 101Nella cessione a GE ci fu una svista. Un piccolo gruppo di ingegneri capeggiati dall’ingegner Giorgio Perotto si trovò isolato senza nessuna particolare direttiva e decise autonomamente di sviluppare una macchina per il calcolo automatico di piccole dimensioni. Prese forma la Programma 101 (P101) [21], chiamata anche Perottina. Completato il primo prototipo fu presentata alla dirigenza Olivetti, in particolare all’allora amministratore delegato Natale Capellaro, il padre della vendutissima Divisumma 14, che si rese conto della enorme potenzialità della macchina. Seguì una fase di cancellazione dalla documentazione della parola calcolatore sostituita con la parola calcolatrice per evitare rivendicazioni da parte della General Electric. La macchina fu oggetto di spionaggio industriale, il prototipo fu rubato, ma recuperato dopo pochi giorni [20, p. 218]. Infine, fu prodotta una macchina con un design dello châssis accattivante che fu presentata ufficialmente, ma sottotono, alla esposizione universale di macchine per ufficio di New York nel 1965 [22]. Non appena alla fiera fu notata si rese necessario gestire la fila dei visitatori. Se ne vendettero più di 40000 esemplari, nonostante il prezzo non basso. La NASA ne comperò diversi esemplari [23], al HP un centinaio. La P101, per alcuni, è il primo personal computer della storia. Abbastanza piccola per essere facilmente trasportata, dedicata all’uso personale (in contrapposizione dei mainframe di allora in mano ai tecnici), facilmente programmabile con unità di input e di output (stampante) e memoria di massa magnetica. La filosofia della macchina fu copiata dalla HP per il modello 9100 A. L’HP citata per aver copiato parti brevettate della P101 accettò di pagare 900.000 dollari di risarcimento extragiudiziale.

 

Interessante è il confronto delle caratteristiche tecniche delle varie macchine [24]:

 

CEP ELEA

9003

FINAC

CRC 102A

Word size

36 bits

variable

20 bits

42 bits

Main memory technology

Magnetic cores

Magnetic cores

Williams tubes

Magnetic drum

Main memory capacity (words)

4,096

20,000

832

1,024

Secondary memory devices

Magnetic drum and magnetic tape

Magnetic drum and magnetic tape

Magnetic drum

Magnetic tape

Secondary memory capacity

Drum: 32K words; tape: 1,536K words

Drum: 360,000 words; tape:13,000K words

32K words

117K words

Additions per second

~6,700

~5,000

~1,041

~100

Kind of components

Vacuum tubes, germanium diodes and transistors

Germanium diodes and transistors

Vacuum and cathode tubes

Vacuum tubes and germanium diodes

Instruction set

128

91

30

25

I/O devices

Tape punch and reader, teletype writer and printer

Tape punch and reader, card punch and reader, printer and teletype writer

Tape punch and reader, teletype writer and printer

Tape punch and reader, and teletype writer

Electric power used

25 kW

4.5 kW

35 kW

20 kW

Exemplars made

1

40

9

20

L’ELEA 9003 era certamente il più performante, da notare il ridotto consumo, se paragonato con gli altri elaboratori, dovuto all’uso dei transistori.

 

In seguito, altre aziende italiane produssero elaboratori elettronici. Solo per citare due esempi, la Laben, specializzata in elettronica e strumentazione nucleare, che produsse il LABEN 70, un minicomputer per applicazioni scientifiche ed industriali, che fu presentato nel 1970, una macchina a 16 bit [25] e, più recentemente, l’MD 800 basato sul processore 8080, progettato e costruito da ingegneri del CSELT di Torino [26] realizzata un anno prima del primo Apple I.

Verso l’inizio degli anni ’50 in ambito UNESCO [27] ci fu l’idea di realizzare un centro internazionale di calcolo, che dopo alcune ipotesi, sarebbe dovuto sorgere in Europa. Il Centro era spinto dalla convinzione che il costo e l’impegno per una grossa macchina per il calcolo automatico fosse troppo oneroso per una singola nazione. Mauro Picone (siciliano di origine, aveva studiato a Parma e a Pisa [28]), forte del suo prestigio internazionale e della sua capacità a negoziare, si diede subito da fare per proporre l’Italia come luogo di installazione di tale macchina. La ratifica dell’accordo si ebbe a Parigi nel 1951 e l’Italia, Roma, fu designata per il centro. All’accordo avrebbero dovuto aderire almeno 10 nazioni, ma questa adesione venne a mancare e il centro non si fece. Le singole nazioni preferirono provvedere per propri centri di calcolo. Del resto, si sa, in informatica/elettronica i costi scendono e le prestazioni salgono in modo veloce.
L’episodio, comunque sottolinea come l’Italia fosse in grado di entrare con competenza in ruoli centrali già nei primi anni della elaborazione elettronica. Erano buone, se non ottime, le capacità matematiche di metodi numerici, nonostante la fuga di geni come Fermi, esisteva una buona scuola di Fisica e anche l’ambito elettronico aveva i suoi punti di forza.
Erano evidenti le difficoltà economiche, in parte superate con il progetto Marshall. L’Olivetti fu l’unica ad autofinanziarsi senza ricevere aiuti, nemmeno indiretti, tanto che numerosi ministeri acquistarono IBM a discapito di Olivetti con dubbie operazioni di appalto [28].

Si può dire che la tecnologia italiana, in ambito di calcolatori elettronici era in ritardo di 5 anni o poco più rispetto quella americana. Le esperienze dei primi anni consentirono la realizzazione di numerosi incontri e seminari sull’argomento e posero le basi per corsi di studio e di perfezionamento. L’esperienza, inoltre, non era semplicemente accademica, ma aveva solide basi nell’industria. Il Politecnico e INAC fornirono fin dai primi momenti servizi ad aziende esterne, come la Pirelli per difficili calcoli per determinare i campi elettrici in applicazioni per l’alta tensione o per i calcoli per la struttura della diga del Vajont. Queste attività erano fonte di entrate economiche oltre che di interazione con problemi reali e non soltanto accademici. L’informatica fece, come fa tutt’ora, come centro di aggregazione fra differenti discipline ingegneristiche, di fisica, di matematica e di logica. Molto presto si iniziarono ad affrontare problematiche di linguaggi, sistemi operativi, tutela del software e tanto altro. Era tutto da inventare. I primi computer erano "nudi", privi di qualunque software, linguaggio o sistema operativo.
A partire dagli anni 60 diverse università si dotarono di computer e si formarono consorzi interuniversitari e centri di elaborazione, come il CINECA a Bologna, il CILEA (Milano), il CSATA (Bari) ed altri ancora. A questi consorzi va riconosciuto il merito di aver messo a disposizione le tecnologie per lo sviluppo informatico in Italia.

Negli anni a seguire furono formate diverse commissioni per fornire indicazioni circa lo sviluppo informatico in Italia. La commissione del 1973 (Commissione Istruttoria Raggruppamento Informatico) sottolineava notevoli azioni da parte di diversi governi europei a sostegno dell’informatica e la totale assenza, in merito, del Governo italiano. Nel 1971 fu anche presentato uno schema di disegno di egge, che restò disatteso [7].

L’Italia iniziò velocemente e con profitto l’uso di elaboratori già nei primi anni della loro comparsa. C’erano competenze consolidate e ampliate con notevole impegno e velocità assieme alla capacità di produrre ed essere competitivi. Venne a mancare il supporto, la protezione politica ed economica dello Stato, vanificando buona parte degli sforzi di enti, università, aziende e persone che avevano investito risorse nel settore elettronico e informatico.

Bibliografia

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1 Il piano Marshall fu determinante per la ricostruzione europea post-bellica. Gli aiuti, comunque, erano subordinati alla approvazione americana. In ambito computer, alla Francia fu negato il finanziamento per un progetto che coinvolgeva l’Unione Sovietica.

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